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Ha per protagonista Matteo Fontana, uno chef in disgrazia che cerca faticosamente di raccogliere i pezzi della sua vita.
Questa è la sinossi:
Matteo
Fontana arriva a Parigi con il portafoglio vuoto e il cuore pieno di amarezza,
tutto quello che gli resta è una carriera rovinata e pochi vestiti sgualciti. Ha
accettato l’invito di Jonathan Galarneau e ha deciso di diventare
uno dei ragazzi del Six Sense, un esclusivo servizio di accompagnatori per
signore ricche e annoiate che si trova nel cuore della capitale francese in Rue
de Castiglione. Il suo obiettivo è raccogliere soldi a sufficienza per aprire
un ristorante tutto suo ma la strada per raggiungere lo scopo non è priva di
compromessi e di imprevisti. L’incontro con i suoi nuovi colleghi cambierà per
sempre la sua vita e il suo modo di vedere il mondo, diventeranno la famiglia che
ha perso e lo guideranno verso una nuova consapevolezza di sé e delle proprie
potenzialità. Quando tutto pare andare nella direzione sperata un nuovo amore irrompe
nella sua vita minando le certezze che con fatica aveva costruito. Le ombre del
passato ritorneranno con prepotenza e con esse antiche domande a cui questa
volta non potrà sfuggire.
Per incuriosirvi vi lascio il primo capitolo in regalo!
1.Six Sense SPA
Parigi
20 aprile 2012
La pioggia leggera cade sul
parabrezza e il tergicristallo la spazza via lasciandomi la visuale libera di
ammirare il Louvre.
Non avrei mai creduto di
guidare fin nel cuore di Parigi, la mia è stata una scelta improvvisa, non ho
più programmi, vivo alla giornata e prendo quello che ogni nuovo giorno mi
regala.
Oggi mi ha regalato la splendida
vista dell’Arc du Trionphe e la strombazzata nervosa di una donna che guidava
una Ferrari nera inveendo contro questo italiano distratto dalla bellezza della
città.
Ho già vissuto a Parigi, ma il
suo fascino riesce sempre a catturarmi, inoltre questa è la prima volta che
guido lungo gli Champ Elisee. Provo una sensazione di potenza e malinconia,
diversa da tutte le altre volte in cui sono stato nella capitale francese.
Forse è solo perché sono molto diverso dallo studente che era venuto in cerca
di avventura e insegnamenti alcuni anni fa. Allora sapevo che cosa avrei fatto
della mia vita e del tempo che mi era concesso a Parigi, oggi non so se mi
fermerò dal mio nuovo amico o se me ne ritornerò in Italia. Non so più che ne
sarà della mia vita. Ogni cardine è saltato spalancando un portone che dà
sull’infinito.
“Svoltare
a destra. Proseguire per cinquanta
metri. La destinazione è sulla sinistra”.
Passo oltre il numero 37 di rue
de Castiglione, poco più avanti c’è Place Vendome ma devo girare a destra e poi
a sinistra nella Place du Marché de Saint-Honoré dove si trova il parcheggio in
cui Jonathan mi ha consigliato di lasciare l’auto.
“La
destinazione è sulla sinistra, ricalcolo”.
Spengo il navigatore, odio la
voce della signorina, ma il satellitare è indispensabile in una metropoli come
Parigi, da solo mi sarei perso.
Entro nel parcheggio e trovo un
posto dove lasciare la mia Mini e cerco l’uscita. Mi volto a guardare la
carrozzeria lucida e rossa dell’auto che adoro. Si tratta di tutto quello che
resta della mia vita precedente, scorgo il riflesso di un uomo e stento a
riconoscermi.
So di avere un aspetto appena
presentabile e mi passo le mani tra i capelli per sistemarli.
Sono accadute così tante cose
in questi ultimi mesi che quasi non mi riconosco più, risalgo in superficie e
il naso si alza verso la colonna che domina Place Vendome, dritto di fronte a
me c’è rue de Castiglione, percorro con calma le poche decine di metri che mi
separano da quella che sarà la svolta della mia vita e mi sento emozionato come
un ragazzino.
Hai
ventisei anni! Non puoi tremare come quando monsieur De Liverò ti chiese di
realizzare l’esame finale al Chez Annette, coraggio!
Mi fermo davanti all’imponente
portone a doppio battente in legno massiccio, prima e dopo ci sono due
alberghi, i portieri sono impeccabili nelle loro uniformi eleganti. Siamo nel
cuore di Parigi, di fronte a me ci sono i giardini de le Tuileries, i taxi
sfrecciano su rue de Rivoli portando clienti che indossano abiti dal taglio
sartoriale e scarpe da più di mille euro.
Inspiro una boccata d’aria e le
narici si riempiono dell’odore tipico della grandi metropoli eppure, mentre
vedo l’ennesima Ferrari percorrere il viale, capisco che il profumo dei soldi
sovrasta quello dei gas di scarico.
Che
strano, c’è solo un nome scritto sul citofono: Six Sense SPA.
Penso, mentre mi sistemo meglio
che posso la camicia e i jeans stropicciati dalla notte passata in auto. Cerco
di non pensare a come sia mal vestito rispetto alle persone che passeggiano
sotto i portici di questa via così chic.
O
la va o la spacca!
Premo il pulsante e la luce del
video citofono mi illumina il viso.
“Chi è?” chiede una donna dallo
strano accento, forse orientale.
“Sono Matteo Fontana, Jonathan Galarneau mi sta aspettando.”
Il mio francese è ottimo, l’ho
allenato per anni e la risposta della donna è lo scatto secco della serratura.
Entro nell’androne il cui
pavimento è ricoperto di marmo nero, le pareti sono decorate con motivi
floreali che partono dal pavimento e arrivano fino a un metro d’altezza. Salgo
i tre scalini che portano al pianerottolo e sono di fronte all’ascensore, accanto
ci sono anche le scale; scelgo quelle. Non so a che piano salire e il palazzo
pare averne almeno cinque, preferisco controllare i singoli pianerottoli e
vedere dove si trova Jonathan.
Mi appoggio al corrimano in
ferro battuto nero e faccio due rampe di scale, uno scalino dopo l’altro salgo
verso la mia nuova vita e, a ogni passo, la mente va a ritroso mentre ripenso
alla sequenza di avvenimenti che mi hanno portato fino a rue de Castiglione.
Sono uno chef o, per essere
onesti, ero uno chef.
I ristoranti per cui ho
lavorato fin da giovanissimo mi hanno sempre considerato bravo, molto bravo. Ho
imparato a conoscere e cucinare le specialità di varie cucine internazionali,
sono partito dall’italiana ma ho appreso i segreti anche di quella francese
proprio qui a Parigi, dieci anni fa, quando ho studiato e affinato i consigli
dei miei insegnanti. Da allora ho lavorato in molti ristoranti prestigiosi, cambiando
lavoro solo perché mi offrivano più soldi e lasciando dietro di me sempre un
buon ricordo. È stato proprio per il denaro che ho lasciato il ristorante Due
Mori per andare a lavorare al Bistrò di Andrea.
Lo conoscevo dai tempi della
scuola alberghiera, avevamo fatto tre anni di studi assieme e ci eravamo
piaciuti, nonostante io non fossi un erede della cucina italiana e non avessi
la sua tradizione familiare. Andrea Bezzi infatti è niente meno che il figlio
del grande Arturo Bezzi, un secolo di tradizione culinaria italica posta in una
calle del Sestiere di San Marco a Venezia da tre generazioni.
Non so per quale motivo lo chef
che lavorava per loro e si occupava del pesce li aveva improvvisamente lasciati,
abbandonandoli dall’oggi al domani, mettendoli in serie difficoltà con la
gestione del Bistrò. Ricordo come fosse stato ieri la telefonata di Andrea,
aveva la voce quasi disperata, mi supplicava.
“Vieni Matteo, mio padre ti
lascerà mano libera. Figura solo di nome come chef, in realtà è sempre in sala
a intrattenere i clienti.”
“Andrea, lo chef saresti tu, in
ogni caso, io mi occuperei solo di una parte della cucina, per me sarebbe fare
un passo indietro. Qui governo ogni settore, non mi piace l’idea di avere di
nuovo chi mi sovrintende.”
“Lo sai che non amo cucinare il
pesce, né governare una cucina, per carità! Tutti che ti chiedono che fare, no,
non fa per me. Saresti tu il capo chef di fatto, stanne certo! Vieni ti
pagheremo il doppio dei Due Mori, per favore…”
Il tono supplichevole che
usava, unito alla promessa, certa, di denaro, oltre al prestigio di lavorare
con uno dei cuochi più bravi al mondo mi resero meno sicuro. Mi dispiaceva
lasciare il luogo dove lavoravo, ma la proposta era molto allettante.
“Mi tenti…”
“Lasciati tentare!”
Potevo sentire il suo sorriso
ammaliatore attraverso il telefono, Andrea non era mai stato bello, non come
suo padre almeno, ma aveva quel modo di fare così adatto a gestire un locale, e
di certo in questo assomigliava molto ad Arturo Bezzi. Capii che avrei
accettato ma rimaneva ancora una questione in sospeso a cui tenevo moltissimo.
“La mia ragazza, Lora, te la
ricordi? Fa la cameriera ai Due Mori, non è che potrebbe venire anche lei al
Bistrò?”
Andrea mi rispose con una
risata.
“Sei ancora assieme a lei dai
tempi della scuola? Romanticone! Me la ricordo benissimo: molto bella, elegante
e brava. Un posto per una professionista di sala lo troviamo di certo, non
preoccuparti!”
Così avevo accettato arrivando
al Bistrò pieno di un entusiasmo tale da convincere Lora a cambiare ristorante
e lavoro.
Ripensare a lei mi riempie le
narici di gelsomino, il profumo che impregnava la sua pelle, l’odore
inconfondibile che sentivo a letto accanto a lei.
L’amo ancora, inutile negarlo, andarmene
da Venezia mi è servito solo a non vederla più e a smettere di soffrire in modo
crudele, ma il dolore sotterraneo rimane, e basta nulla perché riaffiori nella
mia anima con prepotenza.
Il famoso tempo che pone
rimedio a tutti i mali quanto dovrà essere? Quanto dovrò aspettare prima di
scordarla?
Dal pianerottolo del secondo piano
sbuca una donna, ha un fisico flessuoso e indossa una specie di divisa composta
da pantaloni attillati neri e maglietta rossa aderente.
Ha aperto l’unica porta del
piano in cui c’è una targa di ottone che con motivi svolazzanti riporta la
scritta “Six Sense SPA”.
I suoi occhi scuri mi osservano
curiosi.
“Chi sei?”
“Un amico di Jonathan”.
Mi squadra dalla testa ai piedi
e poi fa un sorriso beffardo.
“Sì, si vede che sei un suo
amico, lo trovi al piano di sopra” e come è apparsa, scompare.
La chioma corta e bionda della
donna, mi riporta con forza alla memoria il volto di Lora.
I suoi occhi trasparenti, il
suo viso arrossato mentre facevamo l’amore, la sua espressione mortificata l’ultima
volta che ci siamo visti.
Ho impiegato quasi un anno per
capire che lei non mi amava, o almeno, non mi amava più.
Mentre salgo l’ultima rampa di
scale il ricordo più doloroso si affaccia con forza.
Lui che la stringe, lei che
geme nel suo abbraccio…
Scuoto la testa, sono arrivato.
Mi trovo in un pianerottolo che definire fiorito è riduttivo; pare una serra
per quanti fiori ci sono sulla rastrelliera posta di fronte alle scale. Mi
colpisce subito la vista di un enorme ficus, con delicate foglioline verdi dai
profili bianchi.
Incredibile come una visione
così banale come una pianta possa mandarmi di nuovo indietro nel tempo.
Ecco, sono nell’ingresso del
Bistrò di Arturo, uno dei locali più esclusivi di Venezia. Sono passato accanto
a quel ficus, molto simile a quello che vedo ora, centinaia di volte nei due anni in cui ho
lavorato come chef per Arturo.
Adoravo quel posto, adoravo
collaborare con lui e creare l’armonia dei sapori che solo Arturo sapeva
immaginare. Tutto questo è finito nove mesi fa, ora sono a Parigi, non a
Venezia e una porta socchiusa mi dice che lì devo entrare.
Scuoto la testa per cancellare
i pensieri che sembrano tormentarmi e mi faccio avanti, in quel momento Jonathan
si affaccia nello specchio della porta e il suo sorriso franco e sincero
alleggerisce il peso che ho dentro.
“Ciao Matteo!” dice prima di
abbracciarmi.
“Ciao! Avevo paura di avere
sbagliato indirizzo” rispondo ricambiando l’abbraccio e la stretta di mano
successiva.
“Vieni” mi spalanca il
portoncino bianco, blindato e con molteplici serrature e avanzo nell’ingresso
altrettanto bianco e laccato.
”No, vedi sono qui, non hai
sbagliato. Accomodiamoci.”
Mi fa strada lungo un corridoio
dal pavimento in parquet di legno a spina di pesce e con bei disegni di intarsi
che lo impreziosiscono. Le pareti sono abbellite da quadri e stampe che
rappresentano vedute storiche di Parigi. L’insieme ha un aspetto molto signorile,
elegante senza eccedere. Nei cinque metri di corridoio conto quattro porte,
Jonathan entra nella penultima a sinistra.
Siamo in una specie di
salottino, forse la biblioteca, vista l’enorme libreria che abbraccia fino al
soffitto tutta la parete di fronte alla porta. Sulla destra ci sono due alte finestre
nascoste dietro pesanti tende drappeggiate di verde, come le poltrone che hanno
di fronte, nel mezzo si trova un piccolo tavolo rotondo, lui si accomoda su una
e mi invita a sedermi sull’altra.
Quando mi accomodo e alzo la
testa vedo che davanti a noi si apre un arco, che dà su una sala più ampia al
cui centro c’è una lunga tavola in legno massiccio, sopra un vassoio con
bicchieri e bottiglie d’acqua e liquori.
“Vuoi qualcosa?” chiede
Jonathan, indicando con un braccio proprio la direzione del vassoio.
“Sì, grazie, solo acqua”.
Il viso di Jonathan si apre in
un sorriso smagliante in cui i denti bianchissimi contrastano con la sua pelle
scura.
“È proprio vero allora che i
baristi sono astemi”.
Lo osservo mentre si alza
muovendosi con l’eleganza che ho subito notato in lui. Sarà alto almeno un
metro e novanta, ha il fisico snello e muscoloso, i lineamenti del viso non
sono quelli che ci si aspetterebbe da un uomo di colore. Le labbra sono carnose
ma non troppo, il naso è sottile e gli zigomi pronunciati. Si capisce
guardandolo che uno dei suoi genitori era bianco e che lui è uno splendido
esempio di come da due buone razze possa uscire un purosangue. Jonathan mi è
piaciuto subito, non per la sua bellezza abbagliante che mandava in tilt le
donne, e anche alcuni uomini, che lavoravano con me, ma per la luce che
percepivo in fondo al suo sguardo. Quando mi fissa io so che mi vede, non mi sfiora,
mi attraversa, vede esattamente ciò che sono e spesso mi ha messo a disagio la
consapevolezza di non avere schermi dietro cui nascondermi di fronte a lui.
Mentre sorrido alla sua battuta
rispondo.
“Dopo devo guidare, e lo sai
che non sono un barista”.
Mentre mi versa dell’acqua da
una caraffa mi chiede interessato.
“E che cosa sei Matteo? È
importante che tu abbia una professione certa”.
Sono in imbarazzo.
“Credevo che mi avresti offerto
tu un lavoro”.
“Ci hai pensato?”
Mi osserva con gli quegli occhi
così attenti e so che non posso ingannarlo.
“Sì, sono qui per questo, ho
bisogno di soldi”.
“Credevo volessi salutarmi” e
le sue labbra carnose si piegano in un sorriso beffardo.
Forse arrossisco.
“Certo, ma…”
“Scusa, scherzo!” si avvicina
tendendomi il bicchiere. “Abbiamo bisogno di uno come te, ma dovrai piacere anche
alla titolare, lo sai vero?”
“Come ogni lavoro si deve fare
un colloquio, non ci vedo nulla di strano”.
“Vedi, Jonathan, ti fai troppi
problemi, il tuo amico sa già come funziona”.
Una voce femminile irrompe
nella stanza, e mi giro verso la porta.
La donna che entra avrà
quarant’anni, è bionda con i capelli lunghi e ondulati, ha una pelle
bianchissima e gli occhi chiari tradiscono la sua provenienza dall’Europa
dell’Est molto più del suo leggero accento.
“Benvenuto Matteo, io sono
Irina”.
Le stringo la mano che mi tende
e la sua presa è ferma, sicura ma amichevole, mi piace.
“Jon ti ha detto in che consiste il lavoro?” e la sua voce si flette
mentre chiama per nome il mio amico.
“Credo di saperlo”.
“Forse tu hai solo visto lui
che si accompagnava a signore di svariati tipi, ma il nostro lavoro è più
sottile.”
Sì,
come no!
“Offrite un servizio di
accompagnatori” dico con calma, cercando di non far trasparire alcun sarcasmo
nella mia voce.
“Gigolò intendi dire? Sì, anche quello, ma non solo. Le nostre
clienti richiedono molto più del sesso e di un compagno in un’occasione
mondana. Il mio primo approccio con te è positivo. Ti ho osservato mentre
salivi le scale, mi piace come ti muovi. Ho fatto delle ricerche sul tuo
passato e non c’è niente che mi preoccupi, ritengo che tu possa lavorare con
noi. Jonathan garantisce per te e io mi fido del suo giudizio. Ora dovrai
essere valutato da Sylvie e poi da Laura.”
La guardo perplesso.
“Che intende per valutato?”
I suoi occhi chiari mi fissano
divertiti.
“Per quanto posso vedere hai le
caratteristiche fisiche necessarie, Sylvie valuterà le capacità”.
Non
può essere quello che penso…
“Sì, è quello che pensi” si
intromette Jonathan e giurerei che i suoi occhi ridano mentre sento il viso
farsi caldo.
“Laura invece si farà
accompagnare da te in un luogo elegante, così da capire se puoi sostenere una
conversazione e a che livello”.
Le mie labbra si piegano.
“Vuoi dire se sono abbastanza
intelligente?”
Irina è seria mentre mi guarda.
“Infatti, molte donne ritengono
l’intelligenza sensuale quanto un fisico tornito”.
Lo
so bene!
Il volto di Lora si affaccia
con prepotenza nella mia mente, credo che la mia espressione sia eloquente.
“Che succede Matteo?” chiede
Irina, con un’attenzione al mio cambiamento di stato d’animo, che mi sorprende.
Dovrò
guardarmi da lei oltre che da Jonathan!
“Niente, solo un ricordo”.
“Ah, Jon mi dice che hai un amore infelice alle spalle”.
Guardo nervoso sorpreso l’uomo
e mi meraviglia che abbia rivelato quella confidenza.
“Non è una brutta cosa in
questo lavoro!” Continua Irina. “Molte delle nostre clienti hanno amori
infelici dietro e, accanto a loro, potrai comprenderle meglio di altri. Spesso
non vogliono rapporti sessuali ma solo qualcuno che le ascolti”.
“Capisco molto bene Irina”.
È
la verità.
Dopo che Lora mi ha tradito
volevo solo levarmela dalla pelle e sono stato con alcune donne ma nessuna,
nemmeno Lidia, con cui ho vissuto quasi cinque mesi, me l’ha fatta dimenticare,
mentre parlare con Jonathan quella sera…
Alzo gli
occhi, le sue iridi scure mi stanno perforando, anche lui sta ricordando il
momento in cui ci siamo capiti fino in fondo; l’attimo in cui ha visto sul
serio chi sono.
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